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L'espressione delle emozioni in culture diverse

Nel 1987 lo stesso Ekman e i suoi collaboratori, dopo ulteriori prove ed esperimenti, conclusero che la prova dell’università delle emozioni è travolgente e che sei sono le emozioni universali: rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa. Ancor prima (1967) Ekman e Friesen, intrapresero un viaggio in Nuova Guinea presso le tribù del posto, per verificare l’ipotesi che tutte le popolazioni anche di culture diverse e non letterate, comprendevano e usavano le stesse espressioni facciali.


Nonostante le numerose conferme a favore della tesi dell’università, tuttavia c’erano da spiegare delle differenze culturali che portavano a fenomeni di incomprensione nella comunicazione interculturale, che facevano intuire l’esistenza di qualcosa di culturalmente specifico. Da qui nasce la teoria neuro-culturale.


Cosa vuol dire? Con il termine ” neuro” ci si riferisce alla relazione tra una specifica emozione e uno specifico programma espressivo. Ad esempio, la paura porta ad avere ambedue le sopraciglia alzate, le palpebre superiori sollevate e le labbra leggermente semichiuse e tirate.


Il termine “cultura” invece, sta a sottolineare che sul programma espressivo intervengono elementi appresi culturalmente. Vale a dire, che al di là della base universale per l’espressione delle emozioni, esistono una serie di display rules, cioè regole sociali di esibizione delle emozioni, culturalmente apprese, che prescrivono il controllo e la modificazione delle espressioni emozionali a seconda della circostanza sociale.


L’esistenza di queste regole fu dimostrata empiricamente in uno studio cross-culturale da Ekman e Friesen in cui analizzarono le risposte espressive di soggetti americani e giapponesi alla visione di un film, sia in condizioni isolate, sia in presenza di uno sperimentatore.


In un primo momento i soggetti vennero registrati con una videocamera nascosta mentre guardavano un film da soli a tonalità emotiva neutra (panorami) e a tonalità emotiva negativa (interventi chirurgici).


In un secondo momento, vennero registrate le espressioni facciali in risposta a stimoli emotivamente neutri e negativi con soggetti non piú in isolamento bensì in presenza di uno sperimentatore.


Nella prima condizione, quando i soggetti credevano di essere soli, non si verificarono differenze nelle espressioni facciali tra le due culture, americani e giapponesi. Invece, nella seconda condizione, la presenza dello sperimentatore condizionava notevolmente le risposte facciali. Infatti, i soggetti giapponesi tendevano a manifestare meno le espressioni negative e a nasconderle con sorrisi, al contrario dei soggetti americani.


Tale differenza fu attribuita a regole di decodifica delle emozioni apprese culturalmente e che possono essere distinte su quattro livelli:


INTENSIFICAZIONE, che esagera la manifestazione;

ATTENUAZIONE, che la minimizza;

INIBIZIONE, che sopprime in modo deliberato la manifestazione;

MASCHERAMENTO, che sostituisce la manifestazione, mimando l’espressione di una emozione che non si sente in quel momento.

Questo vuol dire che le due culture usano in maniera diversa queste regole e che quindi per alcune culture l’espressione di una emozione può non riflettere esattamente cosa la persona, che esprime l’emozione, stia provando realmente, o non riflette l’esatto grado di intensità con cui l’emozione viene provata.


Queste regole non valgono solo quando si parla di espressione delle emozioni ma, anche di riconoscimento di queste.


Le prove sono state date dallo studioso giapponese Matsumoto. Nel suo lavoro, soggetti giapponesi e americani dovevano interpretare stimoli facciali di 48 foto raffiguranti le sei emozioni universali, i cui attori erano di diversa cultura e sesso.


Il risultato fu che gli americani risultarono piú precisi nel riconoscimento delle emozioni negative rispetto ai giapponesi.


L’apparente maggiore precisione del popolo americano, è la conseguenza di una cultura di tipo individualista, alla quale apparteniamo anche noi, cioè una cultura che pone l’accento sulle esigenze e gli obiettivi dell’individuo, anziché del gruppo. Piú precisamente, in questo tipo di culture le emozioni hanno un valore interpersonale piú alto. I sentimenti personali, e la loro libera espressione, ribadiscono l’importanza dell’individuo rispetto alle relazioni sociali.


Il Giappone, al contrario, come molti dei paesi asiatici, fa parte di una cultura cosiddetta collettivista e pone quindi maggiore attenzione ai bisogni del gruppo, promuovendo sè interdipendenti, incoraggiano i vincoli di parentela e le relazioni di comunità. Inoltre, i loro sentimenti personali e la loro libera espressione hanno un’importanza relativamente minore in confronto al loro significato interpersonale. Tutto questo implica che è scoraggiante per i giapponesi percepire ed esprimere emozioni negative.


Ma allora le emozioni sono universali o no?


Si, le espressioni emotive sono una “lingua universale”, ma diversi “accenti”o “dialetti” possono variare in modo sottile attraverso le culture. Vale a dire che le espressioni di felicità, tristezza, paura e così via sono uguali e si manifestano attraverso lo stesso programma motorio in tutte le culture. Tuttavia, l’appartenenza a diverse culture porta ad un uso diverso delle norme di espressione condizionando la manifestazione e il riconoscimento delle emozioni.

Dott. Umberto Pianella

Psicologo, Psicoterapeuta, a Civitanova e a Macerata.




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